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FIVI 2023 a Bologna

Il Calice di Corrado • 9 febbraio 2024

Focus sul Cirò

Poco più di 15 anni fa, esattamente il 17 luglio 2008 nei locali della Reggia di Colorno (PR), nasceva la FIVI (Federazione Italiana Vignaioli Indipendenti) con lo scopo di “dare voce a chi non ha voce”, cioè di difendere gli interessi delle piccole e piccolissime aziende, ad oggi circa 1.700 sparse su tutto lo Stivale per un totale di circa 13.000 ettari di vigneto (100 milioni di bottiglie con fatturato di 850 milioni di euro), rappresentando la figura del viticoltore di fronte alle istituzioni e promuovendo la qualità e autenticità dei vini italiani radicati sul territorio; per potersi affiliare, infatti, è necessario coltivare le proprie vigne ed imbottigliare il proprio vino vendendolo con il proprio nome e la propria etichetta senza acquistare o commercializzare vini di altri.


Inoltre il vignaiolo deve rispettare le norme enologiche della professione, limitando l’uso di additivi per produrre uve sane che non abbiano bisogno di trattamenti in cantina; in pratica la FIVI rappresenta non tanto uno “stile produttivo”, per quanto oltre la metà degli associati siano in regime biologico o biodinamico, quanto un “modello produttivo” con il vignaiolo, sentinella dell’ambiente per la conservazione del terroir e la difesa del paesaggio, al centro di tutto il ciclo produttivo per poter assicurare al consumatore un vino che abbia un forte attaccamento al territorio.


Il Mercato dei Vini è il principale appuntamento associativo della FIVI e la 12° edizione, dal 25 al 27 novembre scorso, per la prima volta si è svolto nei nuovi spazi fieristici di BolognaFiere, 4 padiglioni su 30.000 mq, ospitando circa 1.000 vignaioli, la cui assegnazione degli stand, seguendo la filosofia FIVI di eguaglianza e democraticità, è stata definita per sorteggio, con più di 26mila ingressi di addetti ai lavori e wine lovers distribuiti nei tre giorni di fiera (oltre 2.000 unità in più rispetto all’edizione precedente di Piacenza).

Si tratta in pratica di un vero e proprio supermercato dei vini con la possibilità non solo di parlare direttamente con i produttori, ma anche di acquistarne i prodotti grazie alle centinaia di carrelli della spesa (sì, proprio i carrelli tipo Esselunga/Coop che circolavano tra i lunghi ed ampi corridoi della Fiera) messi a disposizione dagli organizzatori.

Il mio girovagare tra i banchi d’assaggio si è rivolto principalmente alla ricerca dei vini di una denominazione emergente della viticoltura italiana, la Docg Cirò Classico, che eleverà a Docg (prima in Calabria) l'attuale Rosso Doc (dal 1969) Cirò Riserva, la cui proposta di disciplinare è stata pubblicata nella Gazzetta ufficiale del 16 dicembre scorso. Già dall’antichità la Calabria faceva interamente parte del territorio che i Greci chiamavano Enotria (Terra dove si coltiva la vite alta da terra), dal greco “οίνος”/vino e proprio un vino rosso chiamato Krimisa (dalla colonia greca Cremissa dove sorgeva un tempio dedicato al dio Bacco), coltivato nell’attuale zona del Cirò, era destinato in premio ai vincitori delle Olimpiadi.


Per vari motivi, in primis la distruzione delle viti ad opera della fillossera nei primi del ‘900 e la successiva emigrazione, l’antichissima tradizione vitivinicola calabrese fu praticamente abbandonata, limitandosi al conferimento di uve da taglio per vini più importanti e solo ad iniziare dal 2010, grazie alla tenacia e se vogliamo anche testardaggine di alcuni piccoli produttori, contrari alla modifica del disciplinare di produzione che aveva introdotto la possibilità di aggiungere un 20% di altri vitigni anche internazionali nella vinificazione ed accomunati dal lavoro in vigna secondo i dettami dell’agricoltura Bio, è in atto una sorta di rinascimento enoico, sfociato nella cosiddetta Cirò Revolution, teso soprattutto alla valorizzazione di una identità territoriale precisa e riconoscibile: proprio per questo i Cirò in versione sia rossa che rosata di questi produttori sono ottenuti da uve Gaglioppo (il cui nome significa “bellissimo piede”) in purezza, le cui principali caratteristiche sono il colore scarico ed un tannino deciso, comuni anche al Sangiovese: al riguardo, recenti studi avrebbero scoperto una stretta parentela tra i due, in quanto il Gaglioppo sarebbe nato proprio da un incrocio tra il Sangiovese e il Mantonico bianco.

Venendo più in dettaglio ai vini assaggiati, detto che sono solo circa quattro milioni le bottiglie di Cirò tra le tipologie bianco (ottenuto da uve Greco bianco minimo 80%), rosso e rosato, il vero vino della tradizione calabrese, quello che c’è sempre in tavola, è il Cirò rosato, spesso definito “rosso travestito da rosato”, classicamente fermentato e affinato in solo acciaio per preservare freschezza e profumi di macchia mediterranea con finale fruttato: caratteristiche ritrovate nei rosati di Cataldo Calabretta, Maddalona del Casato, Romano Adamo e nel Manyarì dell’azienda Brigante.

Ho poi avuto modo di degustare una serie di Cirò rosso Classico Superiore e Classico Superiore Riserva (100% Gaglioppo) con caratteristiche simili (puliti, dagli aromi di ciliegia, prugna e more, gustosi, tipici i tratti taglienti e sapidi, spesso “intraprendenti” in bocca in gioventù ma dalla trama tannica sempre più elegante e vellutata col passare degli anni), dovute alla comunanza di suoli, climi, esposizioni o metodi di lavorazioni in vigna e cantina, in particolare di piccoli bio-produttori entusiasti ed appassionati del loro lavoro, tra i primi ad aderire alla Cirò Revolution, come la Riserva 2018 di ‘A Vita o la Riserva Aris 2019 di Sergio Arcuri e la sua evoluzione, la Riserva Più Vite 2016, vera quint’essenza del Gaglioppo.

Da segnalare anche la produzione di Cerminara e di Vigneti Vumbaca ed un particolare apprezzamento per l’azienda Brigante che, oltre al vino di punta Cirò Riserva 0727 dall’avvolgente complessità e grande carattere, ha messo in produzione la linea Zero, zero solfiti aggiunti, zero lieviti selezionati e zero filtrazioni nelle tre versioni bianco, rosato e rosso con risultati sorprendenti.

 

“L’amore inespresso è come il vino tenuto nella bottiglia: non placa la sete” - George Herbert (poeta e oratore inglese 1593-1633)

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